giovedì 22 novembre 2007

Welcome to my new blog!


i miei blog sono un po' la casa di una parte di me...
e allora vi do il benvenuto con questo scritto che è soprattutto un omaggio al paesaggio che mi circonda qui dove vivo da diversi anni, sulle colline del Chianti.
lo foto sopra è solo uno scorcio di quello che vedo dalle mie finestre. bello, eh?


Sono innamorata delle mie colline. Per la verità ho amato prima le mie colline e poi la mia casa.
Cercavamo una casa in campagna anni fa, quando nella zona del Chianti era ancora possibile trovare dei casolari ricchi di pietre, di volte, di porticati senza che fosse necessario accendere un mutuo secolare.
Non avevamo fretta e ne vedemmo diversi, alcuni anche belli, ma senza che scoccasse quella scintilla che ci convincesse a porre fine al divertimento della ricerca.
Poi vedemmo le “mie” colline... si, certo, c'era anche la casa, ma io vidi prima le colline. Mio marito angosciato diceva “Ma è un rudere, è tutto da ristrutturare”. E io estasiata declamavo “Guarda quelle sfumature di verde, guarda quei fazzoletti di campi poggiati in terra uno accanto all'altro”.
Non so come vi immaginiate il Giardino dell'Eden, magari non ci avete neanche mai pensato, ma a me piace pensarlo proprio così, come queste colline, saturo di rumori della natura e di silenzi innaturali, carico di profumi portati dal vento e di colori dipinti dalle stagioni.


Era la fine dell'estate allora. E' la fine dell'estate adesso.
L'aria è ancora calda. Le viti amano questo sole, il vino sarà buono quest'anno.
Io sono seduta sull'aia davanti a casa e mi guardo intorno con la stessa meraviglia di quel pomeriggio di tanti anni fa.


Davanti a me si apre un paesaggio da quadro naif, un patchwork di tante toppe diverse eppure in completa armonia tra di loro: colline e colline che si rincorrono e si sovrappongono in un mosaico di tessere tondeggianti e morbide in tutti i toni del verde con tocchi sapienti di giallo e di marrone. Uno scenario rilassante ed emozionante insieme, uno dei tanti miracoli della natura.
Gli ulivi visti così da lontano sembrano rotondi, delle soffici sfere d'argento posate sul terreno a distanze regolari. A quinquonce, come dicono qui.
I filari delle vigne creano un geometrico contrasto, come se la natura si fosse piegata ubbidiente alla ragione e al calcolo dell'uomo.
Qua e là, ad aumentare la tridimensionalità dei campi coltivati, ciuffi di alberi di alto fusto ombreggiano i casolari sparsi, gli antichi castelli, i vecchi borghi.
Guardo verso il basso dove la terra, prima di arrampicarsi di nuovo, declina fino a diventare una breve spianata folta di querce e di acacie che coprono senza nascondere un microscopico laghetto.
Poi la collina risale verso la nostra casa, ed è proprio lì, dai nostri olivi, che nasce l'olio più buono del mondo.
Gli olivi si dissolvono nel verde e nei colori del mio giardino, che ho voluto di proposito un po' arruffato perché la natura non è prati all'inglese e siepi geometricamente potate, non è fiori disposti con diligenza per tipo e per colore.

Talvolta mi sento quasi felice quando guardo questo miracolo.
Oggi prevale la malinconia, ma è una malinconia dolce, dolce come la campagna toscana.




Due biglie di madreperla

questo è il mio primo e forse il mio ultimo thriller.
è stato solo un esperimento, però mi sono divertita a scriverlo...


La donna sentì la testa che le ronzava forte, come se uno sciame di api le stesse svolazzando nel cervello.
Dio, faceva così caldo, e lei non riusciva a respirare. Il cuore le martellava furiosamente, come se tutto il suo sangue si fosse messo a correre.
Stava soffocando. Aprì la bocca per immettere ossigeno, ma riuscì soltanto a emettere dei rantoli strozzati.
Poi sentì un detonatore che le scoppiava nel cervello, e tutto diventò buio.

Quando si svegliò, le sembrò di riemergere da un coma profondo.
Si sentiva esausta e frastornata, e passò qualche minuto prima che riuscisse a mettere a fuoco le cose che la circondavano.
Era stesa nel bagno del suo appartamento. Riconobbe le piastrelle consumate del pavimento, la tenda di plastica a fiori della doccia, l'armadietto con lo specchio sopra il lavandino.
Si tirò su e si avvicinò allo specchio, ma si ritrasse di colpo, come se ci avesse trovato riflesso il volto del diavolo.
Quello che aveva visto non aveva alcun senso. I suoi occhi. I suoi occhi erano completamente bianchi, due biglie di madreperla traslucida.
Riprese fiato e poi si costrinse a guardare di nuovo.
Il terrore si mutò prima in smarrimento e poi in sollievo.
Gli occhi che la fissavano allucinati dallo specchio erano di un banalissimo colore castano. I suoi occhi di sempre, anche se parevano più grandi nel viso esangue.

Era stata solo una allucinazione.
Trasse un profondo respiro e aprì il rubinetto per sciacquarsi la faccia.


o-o-o-o-o

Laura era seduta davanti al televisore, compagno fedele di tante sere solitarie e finestra su un mondo così diverso dal suo. Insieme avevano viaggiato in paesi esotici, si erano divertiti a feste e a spettacoli, avevano amato e odiato, riso e pianto.
Sullo schermo cominciarono a scorrere i titoli di testa del film, e Laura si aggiustò gli occhiali sul naso e si sistemò più comodamente sul divano; non si perdeva mai i film del lunedì notte, vecchi di decenni e spesso in bianco e nero, ma sempre così coinvolgenti e pieni di sentimento.
E non appena il film iniziò, Laura dimenticò se stessa e la sua vita grigia per diventare la protagonista di quella storia satura di romanticismo e di emozioni.
Le lacrime le rotolavano giù per le guance quando un dolore lancinante le trafisse la testa.
Fu un attimo, una spada che con un colpo secco le spaccava in due il cervello. Poi fu folgorata da un lampo di luce bianca che subito si sfumò nell'immagine di una donna.

La donna sta passeggiando in una via buia, ha lunghi capelli rossi e cammina lentamente mettendo un piede davanti all'altro un po' come fanno le indossatrici; indossa un top scollato e una minigonna gialla che scopre le gambe rese ancora più lunghe dai tacchi altissimi. Al braccio ha una piccola borsa di raso rosso.
D'un tratto un'ombra le si avvicina, le arriva alle spalle e le afferra il collo con entrambe le mani. Le dita sembrano due artigli, le unghie diventano bianche nello sforzo, le mani stringono, stringono, stringono. Stringono fino a quando la donna si affloscia come una bambola sgonfia. L'ombra corre via veloce lasciando la donna per terra. Accanto al corpo, una borsetta di raso rosso e un grottesco pene di gomma.

La scena si era srotolata davanti agli occhi di Laura con tanto agghiacciante realismo da parere che quel delitto stesse avvenendo proprio lì, a due passi da lei.
Laura ne aveva visto nitidamente ogni dettaglio: la faccia stravolta della donna agonizzante, il terrore negli occhi che si gonfiavano fuori dalle orbite, la bocca contorta dallo spasmo, la lingua tumefatta che rigurgitava dalle labbra livide.
Un vero e proprio film dell'orrore proiettato per una unica spettatrice, che seguiva ogni inquadratura con gli occhi sbarrati e completamente bianchi.
Forse accecati da quello scempio, gli occhi di Laura si erano infatti svuotati di ogni colore.

La visione scomparve d'un tratto così come era apparsa e, ancora solo vagamente presente a se stessa, Laura strizzò forte gli occhi come per cancellarne ogni traccia.
Quando li riaprì, la scena era ancora viva nella sua mente, ma i suoi occhi erano tornati ad essere del loro banalissimo colore castano.
Rimase diversi minuti lì, seduta sul divano, a cercare di capire quale fantasia malata le avesse scaraventato davanti agli occhi quella scena. Lei i gialli, o i thriller come li chiamavano adesso, non andava a vederli neanche al cinema.
Dio, l'orrore di quella faccia! E poi quel pene di gomma. Assurdo, completamente assurdo.
Si sentiva la gola secca e una agitazione dentro che la scuoteva tutta.
Quando l'inquietudine cominciò a placarsi, si costrinse a tirarsi su dal divano, decisa a non permettere che quell'incubo continuasse a paralizzarla.
E' stato soltanto un brutto sogno, si disse convinta solo a metà, e si avviò a letto.
L'orologio sul comodino segnava le 00:13.

C'erano clienti che andavano e venivano nel negozio quel martedì, sembrava che solo quella mattina si fossero resi conto che l'inverno era ormai alle porte e che presto sarebbero stati necessari gli abiti pesanti.
Laura aveva appena venduto un pullover quando vide Carla venirle incontro con un'aria che voleva apparire costernata ma che trasudava eccitazione. Sventolandole un giornale sotto il naso, le disse:
“Hai letto?”
“No, che è successo?”
“Hanno ammazzato un trans. La notte scorsa, l'hanno strangolato. Non ci sono testimoni e la polizia non rilascia dichiarazioni, ma il tizio che l'ha trovato dice che accanto al cadavere c'era un pene di gomma. Un pene di gomma, ma ti rendi conto?”
Laura sentì che il sangue le defluiva dal cervello per andare a nascondersi chissà dove, sicuramente in nessuna parte del suo corpo, poi le gambe le cedettero e dovette appoggiarsi al banco per non cadere.
“Che c'è, ti senti male?” le chiese Carla preoccupata.
“No, no, va tutto bene. E' stato solo un attimo, adesso sto bene”.
Ma in realtà non stava affatto bene Laura. No, non stava affatto bene.

Passarono diversi giorni, e diverse notti insonni, e Laura non riusciva a togliersi dalla mente il pensiero di essere stata l'unica testimone di quell'orribile delitto.
Adesso sapeva che non era stato un sogno, ma non riusciva a dare un nome a quello che le era accaduto.
Cosa era stato? Una visione? Una premonizione? E lei era forse una sensitiva? Quel pensiero le raggelò il sangue, aveva sempre guardato con terrore al paranormale, liquidava l'argomento dicendo che non ci credeva, ma in realtà ne era spaventata a morte.

Seguiva sui giornali tutte le notizie sull'omicidio, ma nonostante gli svolazzi di fantasia dei cronisti per aumentare le tirature, era evidente che la polizia brancolava nel buio, nessuno aveva visto o sentito niente.
Laura si chiese se non avrebbe dovuto andare alla polizia per raccontare quello che aveva visto, ma la cosa la terrorizzava, chissà quante domande le avrebbero fatto e lei in realtà non aveva visto nulla, soltanto il viso della vittima; dell'assassino aveva scorto appena l'ombra, solo le sue mani le erano apparse nitidamente ma non avevano nessun segno particolare, neanche un anello.
E poi i poliziotti non le avrebbero mai creduto, avrebbero pensato che fosse una pazza visionaria, o una mitomane avida di pubblicità.
L'indecisione la dilaniava, ma alla fine si impose di cercare di dimenticare la visione, l'omicidio, il trans, e il pene di gomma, come se niente fosse realmente accaduto, e anche se non ci riuscì completamente, da quella notte riprese finalmente a dormire.

o-o-o-o-o

Una piazza deserta con una fontana solo lievemente illuminata da un lampione. Una bionda è seduta sul bordo della fontana. Indossa un lungo abito nero, e tiene uno stivale in una mano e un piede nudo nell'altra. Si massaggia la pianta del piede e ha una smorfia di dolore sul volto. Un'ombra si stacca lentamente da dietro alla fontana e arriva alle spalle della donna. Ancora quelle mani, quegli artigli, e poi un'altra patetica bambola sgonfia, e un altro pene di gomma lasciato sull'acciottolato della piazza.

Laura stava dormendo profondamente quando il solito dolore alla testa l'aveva svegliata. Si era tirata su di scatto, gli occhi sbarrati e ciechi a tutto tranne che a quei terribili fotogrammi.
La stessa orribile sequenza della prima volta, erano cambiati soltanto lo scenario e i colori: la piazza con la fontana anziché la strada, i capelli biondi, il vestito nero.
Solo il colore degli occhi di Laura non era cambiato dalla prima apparizione: gli occhi con cui aveva guardato quella piazza, quel volto, quelle mani, erano stati di nuovo completamente bianchi.

I giornali e i media in genere si avventarono sulla notizia con l'avidità di un branco di iene, e l'indomani i servizi sugli “efferati delitti” occupavano i tg e le prime pagine dei giornali.
“La polizia conferma: si tratta di un serial killer. Un altro trans strangolato dall'assassino del pene di gomma”.
I giornalisti si inventarono fatti e supposizioni che la polizia non si era mai sognata di rivelare (no comment, era invariabilmente la risposta del commissario incaricato delle indagini).
Alcuni si lanciarono in fantasiosi profili psicologici del serial killer; c'era chi asseriva che si aveva a che fare con un gay represso, chi ne faceva una questione politica ipotizzando una folle intolleranza di stampo fascista.
Molte illazioni, ma nessun dato concreto.

Laura decise che ormai non poteva più tacere. Non avrebbe detto nulla del primo delitto, ma avrebbe raccontato tutto quello che aveva visto del secondo. E che pensassero quello che volevano.
Telefonò al negozio per dire che non si sentiva bene, sicuramente più una sottovalutazione che una bugia, e si presentò alla stazione di polizia del suo distretto.
L'agente che raccolse la sua deposizione non pareva molto interessato alla sua storia. La interruppe varie volte, ma le domande che le rivolgeva sembravano più dettate da un incredulo sarcasmo che da un reale coinvolgimento.
“Dunque lei avrebbe avuto una visione del delitto di Piazza Salvemini. A che ora esattamente?”
“Non saprei dirle l'ora esatta. Ero a letto quando quell'incubo mi ha svegliata. So che dopo ci ho messo un po' a riprendermi, e quando ho guardato l'orologio era l'una e un quarto. Però non ho idea di quanto tempo fosse passato da quando avevo avuto la mia visione, come la chiama lei.”
L'agente continuava a farle domande su domande, e Laura diventava sempre più nervosa e spaventata, avrebbe voluto alzarsi da quella sedia e scappare via verso la sicurezza del suo appartamento.
Sono stata una stupida a venire qua, lo sapevo che mi avrebbero presa per una pazza visionaria.
Si riscosse per rispondere all'agente che la guardava con un sospetto sempre meno indulgente.
“Gliel'ho già detto! Non ho visto in faccia l'assassino, non ho idea di quanto fosse alto, e non ho visto nessun segno particolare che possa in qualche modo identificarlo.”
La deposizione, che a lei parve un vero e proprio interrogatorio, andò avanti ancora per un po'.
Quando finalmente sembrò che tutto fosse finito, la sciarpa che Laura teneva tra le mani dai palmi sudati era diventata un cencio umido e sgualcito.
“Firmi qua, signora, e vada pure. Dubito che avremo bisogno della sua testimonianza.”
Non ci verrei neanche morta a testimoniare, faccia da stronzo, pensò Laura, e poi arrossì per quella imprecazione, era la prima volta che imprecava in vita sua.
Lasciò velocemente l'ufficio di polizia, decisa a non rimetterci mai più piede.

o-o-o-o-o

Era sabato sera, ma la febbre che Laura si sentiva addosso era ben diversa da quella festaiola e piena di vita del famoso film. La sua era una febbre fatta di freddo, di malinconia, di solitudine.
Non vedeva l'ora che arrivasse il lunedì; al mattino sarebbe rimasta a casa, il negozio era chiuso il lunedì mattina, ma lei si sarebbe tenuta occupata con qualche faccenda e poi nel pomeriggio avrebbe finalmente rivisto le sue colleghe e le sue clienti. Erano tutto quello che aveva ormai, erano le sue amiche e la sua famiglia.
Rassegnata a una ennesima serata di desolante sconforto, Laura tirò fuori le carte e iniziò il primo di una lunga serie di solitari.
Era fortunata con le carte, forse era vero il detto “fortunata al gioco, sfortunata in amore”.
Guardò l'orologio, erano le 22:35, aveva giocato per più di due ore.
Ripose le carte e accese la tv.
Passò in rassegna i vari canali, e decise di fermarsi su una rete locale che stava per trasmettere un film storico; non era proprio il genere che preferiva, ma le piacevano i costumi delle donne ed era affascinata da quegli uomini coraggiosi e volitivi.
Si preparò una tisana, si sistemò sul divano e aspettò che si sfumassero gli ultimi spot pubblicitari.
Poi il film iniziò e lei si perse come sempre in quella storia di amori, intrighi e conquiste.
L'ultima scena che vide fu un lungo bacio tra l'imperatore e la sua amante.
Poi di nuovo quel terribile mal di testa, e gli occhi che sembrarono rovesciarsi all'indietro fino a diventare bianchi, completamente bianchi.

Una donna che scende da una macchina. Forse sta rientrando a casa. E' piovuto oggi, e la donna indossa un impermeabile di un rosso squillante. Sta chiudendo l'auto quando un'ombra le si avvicina alle spalle. Gli stessi artigli che stringono il collo, la stessa bambola che si sgonfia e cade a terra, e poi di nuovo l'ombra che getta sull'asfalto quell'orrendo pene di gomma.
L'ombra ha come un attimo di esitazione, di incertezza, e poi fugge via nel buio della notte.

Tutto come al solito, tutto drammaticamente vivido e reale.
Ma questa volta, mentre quella scena ormai familiare le si dipana davanti agli occhi, una parte della sua mente è vagamente cosciente e avverte come una strana presenza intorno a sé, come la sensazione di qualcuno che la sta osservando.

Poi tutto svanì e gli occhi castani di Laura si ritrovarono a fissare lo schermo della tv; il film era finito, e stava andando in onda uno di quei programmi in cui le donne mettono in mostra i loro corpi come bestie al mercato. Laura detestava quei programmi e quelle donne così sfacciate, ma quella sera non le vide neppure, i suoi occhi erano ancora dominati dalla scena alla quale aveva appena assistito.
“Oddio no, non di nuovo, ti prego!” gridò quando finalmente riuscì a riprendersi.
Tremava violentemente, e quella fu sicuramente la notte più lunga della sua vita.

o-o-o-o-o

Finalmente arrivò l'alba di quella notte interminabile e lei si disse che era inutile rimanere lì, stesa nel letto con gli occhi sbarrati a guardare il soffitto. Si alzò faticosamente, aveva rivisto quella scena agghiacciante mille e mille volte nella sua mente e si sentiva a pezzi.
Pensò che non avrebbe avuto pace se non fosse tornata alla polizia, magari questa volta le avrebbero creduto, forse avrebbero trovato nel suo racconto qualche indizio che lei non riusciva a vedere.
Si, ci sarebbe tornata. Doveva farlo.

Si sentì meglio dopo avere preso quella decisione.
Si vestì e scese all'edicola sotto casa, era domenica e lei voleva ritrovare almeno una parvenza di normalità facendo le cose che faceva ogni domenica mattina: giornale, colazione, un lungo bagno caldo. E poi via, alla polizia.
Si preparò il solito te, ne bevve un sorso, spalmò la marmellata di arance amare sulle fette biscottate, e poi si alzò per andare a prendere il giornale che aveva evidentemente dimenticato sul tavolino dell'ingresso.
Doveva essere davvero sconvolta, il giornale sul tavolino non c'era, chissà dove lo aveva messo.
Aprì il cassetto e frugò tra le carte che ogni tanto vi infilava dentro alla rinfusa.
Non c'era traccia del giornale, ma si ritrovò tra le mani una vecchia foto in una cornice di cartone, una foto del suo matrimonio. Chissà come era finita lì dentro, credeva di averle distrutte tutte.
Guardò la ragazza felice e sorridente che era stata. Poi guardò Paolo; anche lui sorrideva e sembrava felice mentre con un braccio la stringeva a se, come a dirle “ti proteggerò sempre”.
Invece l'aveva lasciata. Diceva di sentirsi donna, lui, di essere donna, e così l'aveva lasciata per quell'uomo insignificante e taciturno. ”Ci amiamo, Laura”, le aveva detto, “lo so che ti faccio del male, ma non posso rinunciare a lui”. E poi erano andati a vivere insieme, e Paolo era diventato Paola, una specie di donna truccata e appariscente. Una cosa ripugnante.
Laura strinse forte la cornice, strinse e strinse e strinse, mentre le sue mani diventavano simili a due artigli con le unghie rese bianche dallo sforzo. Bianche proprio come i suoi occhi.
La cornice si accartocciò come una foglia secca nelle sue mani, e il vetro che copriva la foto si frantumò in mille pezzi.

Solo allora Laura si risvegliò dal suo stato ipnotico, e quando i suoi occhi guardarono le mani tagliuzzate e sanguinanti erano di nuovo di un banalissimo colore castano.
Che stupida, guarda qua che ho combinato! Ma come avrò fatto a rompere il vetro poi, non ho mai avuto molta forza nella mani.
Si disinfettò le ferite e si sedette al tavolo di cucina, determinata a trascorrere come meglio poteva il poco tempo che la separava dall'incontro con la polizia.

Aprì il giornale: una notizia con il titolo a caratteri cubitali occupava quasi tutta la prima pagina:
“Un testimone ha visto il killer del pene di gomma. Si tratta di una donna di mezza età, alta poco più di 1.60, capelli castani e occhi bianchi. Si, l'assassina ha gli occhi completamente bianchi, bianchi come due biglie di madreperla traslucida”.

Laura lesse l'articolo e sorrise sollevata.
Grazie a Dio c'era un altro testimone adesso, e lei non avrebbe più dovuto andare alla polizia.

mercoledì 21 novembre 2007

Second Life

si può evadere dalla realtà?
forse no, o forse solo per poco.
però vale la pena di provarci perché anche poco è sempre meglio di niente...

Carlo e Anna erano una coppia come tante; vivevano insieme da otto anni e conoscevano ormai tutto l'uno dell'altra.
Avevano molte cose in comune: la razionalità, la tendenza alla monogamia, il senso del dovere, la buona educazione; tutti e due passavano la giornata dietro a uno sportello, lei all'ufficio postale e lui in banca.
E dividevano quasi tutto: l'appartamento, le abitudini, le spese, e una Hyundai che avevano acquistato quando si erano messi insieme.

Era una macchina solida la vecchia Hyundai: sempre a disposizione, mansueta e con poche, pochissime esigenze.
Certo, ogni tanto aveva qualche acciacco, ma davvero niente di sconvolgente, più una noia che un vero problema. La carrozzeria non era più lucida e smagliante come una volta, questo è vero, ma non si poteva fargliene una colpa, niente resiste allo scorrere del tempo che crudele e implacabile toglie smalto a tutto quello che tocca.
Un giorno, improvvisamente, la Hyundai si fermò: Carlo e Anna la fecero vedere dal meccanico che si era preso cura di lei fin dal primo tagliando, ma neanche lui riuscì a capire cosa le fosse successo; in realtà non c'era niente di rotto, ma tutto era ormai usurato e consunto. La Hyundai era morta senza essere mai stata veramente ammalata.
Succede. Succede alle macchine, alle persone, alle relazioni...

Poche sere dopo che la Hyundai era passata a miglior vita, Carlo e Anna invitarono a casa alcuni amici, tutte coppie della loro età, tutti senza figli e senza grilli per la testa proprio come loro. Le solite cene, le solite facce, le solite chiacchiere.
Stavano bevendo il caffè quando qualcuno parlò di Second Life, il gioco di ruolo più famoso di Internet. Nessuno ne sapeva molto per la verità, ma forse proprio per questo ognuno disse la sua. Soprattutto sul risvolto morale. Fu una bionda vagamente anoressica a innescare la diatriba, ripetendo a pappagallo il concetto trito e banale secondo il quale si tratta soltanto di un patetico rifugio per frustrati che cercano di evadere dalla monotonia della loro vita reale trasformandosi in eroi virtuali. Come molti concetti triti e banali, anche questo divenne presto un dogma che fece presa sul resto della compagnia, e ognuno si lanciò con entusiastica saccenteria in una psicanalisi di massa dei milioni di partecipanti di quel gioco a loro pressoché sconosciuto.
Carlo e Anna non dissero niente. Ma il mattino dopo decisero che si sarebbero concessi la loro personale, e non certo virtuale, Second Life. Per rinnovarsi e per rinnovare il loro rapporto. Per ritrovarsi e per ritrovare le emozioni di un tempo.
D'altra parte Oscar Wilde in persona ha detto che spesso la nostra vera vita non è quella che viviamo.

Si presero un mese di ferie dal lavoro, si salutarono con gli ormai consueti due baci sulle guance e si dettero appuntamento dopo una settimana esatta in quella che sarebbe stata la loro nuova vita.

Si costruirono i loro avatar. Per la verità si mutarono nei loro avatar.
Anna si sottopose a una estenuante sessione di trucco e parrucco, tagliò i capelli, li arricciò e li tinse di un rosso infiammato e infiammante. Mise lenti a contatto di un misterioso e profondissimo verde. Iniettò gocce di silicone nelle labbra. Abbandonò i jeans e le scarpe comode per gonne attillate e tacchi a spillo. Acquistò della biancheria tutta pizzi e merletti e buttò nella spazzatura i reggiseni sformati e le mutandine un po' stinte che fino a pochi giorni prima avevano fatto parte dell'arredamento di casa, disseminati ad asciugare sui termosifoni. Eh no, non era stata il massimo del sex-appeal ultimamente.
Carlo si rasò i capelli ormai radi, sostituì gli spessi occhiali da vista con delle lenti a contatto nere e lucenti come l'onice, si spogliò di giacche e cravatte per fasciarsi in jeans scoloriti e magliette senza maniche che mettevano in mostra i suoi muscoli ancora miracolosamente intatti. Lesse libri sul corteggiamento e sul sesso, due arti nella quali era sempre stato tanto goffo quanto banale. Noleggiò chilometri di video porno e si sottopose a ore e ore di estenuanti lezioni pratiche con delle signorine compiacenti. Quando capì dove si trovava esattamente il fantomatico punto G seppe di essere pronto.

Anna decise di chiamarsi Sharon, si proprio come Sharon Stone, e di diventare sexy e intrigante, provocante e misteriosa come la diva che ha trasformato un semplice movimento delle gambe in un cult dell'erotismo. Si calò nella parte con la determinazione di una imitatrice professionista: modulò la voce abbassandola di diversi toni; imparò a giocare con gli sguardi: occhi socchiusi e appannati per un invito sussurrato, senza veli e senza battiti di ciglia per una aperta provocazione; sorrisi enigmatici e poche dosatissime risate di gola; sigaretta incorniciata da lunghe unghie laccate, fumo aspirato con languore ed espirato con lentezza; movenze da gatta e pose da pantera.
Carlo decise di chiamarsi George, si proprio come George Clooney, e di diventare sensuale e vagamente gigione come l'uomo che qualsiasi donna accoglierebbe nel proprio letto anche senza Martini. Assunse un'aria pigra e un po' sorniona, e poi provò e riprovò davanti allo specchio degli sguardi che la smentissero; affidò al suo sorriso una illusione di innocenza e ai suoi occhi una promessa di peccato. Alla fine della trasformazione emanava un sex appeal sottile e irresistibile come solo il sex appeal sussurrato e apparentemente inconsapevole sa essere.

La sera dell'incontro Sharon e George erano emozionati e trepidanti come due adolescenti.
Si incontrarono in un ristorante al lume di candela e ricominciarono tutto daccapo.

Comprarono una macchina nuova, una cabrio rossa come i capelli di Sharon. Era così diversa dalla vecchia Hyundai, così eccitante, così desiderabile, così tutta da scoprire.
Per Sharon e per George fu un piacere voluttuoso esplorarla scoprendo a poco a poco tutti i suoi optional, ed esplorarsi l'un l'altra scoprendo vizi e virtù fino ad allora sconosciuti.
Conobbero la potenza del motore della cabrio e l'intensità della libidine dei loro corpi. Accarezzarono la vernice lucida della macchina e la loro pelle lucida di sudore. Ascoltarono il boato degli otto cilindri e i sussurri e le grida delle loro bocche.
Ritrovarono il piacere di svelarsi a poco a poco e la curiosità di imparare a conoscersi più intimamente in un alone di mistero che rendeva intriganti e dense le loro conversazioni.
Riscoprirono il piacere del sesso, quello vero, quello affamato e trasgressivo e quello tenero e prolungato, quello che rende generosi e insaziabili, che fa dare e ricevere con la stessa passione e con lo stesso godimento.
E furono corse a velocità folle sull'autostrada del mare con il vento che arruffa i capelli e la ragione, e lunghe nuotate di corpi nudi e vogliosi, carezze audaci e bagnate come i loro pensieri, baci salati e profondi come l'oceano.
Furono gite oziose nelle campagne, e soste in piccole locande dal sapore antico, amplessi languidi e voluttuosi e lunghe ore pigre nel letto.
Furono incursioni spericolate nelle notti metropolitane, cene al lume di candela e notti folli in discoteca.
La vita di Sharon e George era di nuovo lo specchio della loro macchina, ma questa volta si trattava di una cabrio perdio, di una cabrio che filava a 300 all'ora!
Si, la loro Second Life stava andando alla grande.

Ma si sa che il destino prende e dà a suo piacere. E in una notte di follie e sregolatezze la cabrio slittò sull'asfalto bagnato e andò a schiantarsi sul guardrail.
Varie contusioni e qualche osso rotto per Sharon e per George, e una inesorabile rottamazione per la cabrio.
All'ospedale li medicarono, li fasciarono, li steccarono, li ingessarono, ma niente potettero fare per curare la ferita che lacerava i loro cuori al pensiero che la loro compagna di vita e di avventure era ormai soltanto un groviglio di lamiere, un ammasso di ricordi più dolorosi dei rimpianti.
Sharon, sotto choc e priva di trucco e di mistero, cercò gli occhi di George.
George, spaventato e senza più artificiosità espressive, cercò gli occhi di Sharon.
Gli occhi si incontrarono e si riempirono di lacrime, le braccia si tesero in un abbraccio consolatorio e fraterno. E nella drammatica infelicità che li univa, George mormorò “Anna” e Sharon bisbiglio “Carlo”.
Di nuovo Anna. Di nuovo Carlo.
Nei loro occhi passò veloce un'ombra di stupore, e poi una breve scintilla di speranza subito spenta dalla fuliggine della capitolazione. La cabrio e le follie dell'ultimo mese si erano mangiati tutti i loro risparmi, non ci sarebbe stata nessuna altra macchina per loro.
Si guardarono confusi, paventando una conferma e bramando una smentita al loro sgomento.
Ma la rassegnazione che era tornata ad allagare i loro occhi non lasciava vie di scampo: non ci sarebbe stata nessuna Third Life per loro. Avevano sfidato la vita e avevano perso, con buona pace del signor Oscar Wilde.
Non c'era ormai più niente che potessero fare. La loro storia era rimasta imprigionata nella carcassa della cabrio, e proprio in quel momento una pressa le stava trasformando in uno sterile blocco di metallo, insieme e per sempre.